INTERVISTA
Il
bordo al centro delmondo
Il
manifesto - 12 Agosto 2005
|
Un'intervista con
Ranabir
Samaddar, animatore dei «border studies»
a Calcutta e attivista radicale dei diritti umani.
Le ambivalenze della politica dei diritti di
cittadinanza e le innovative pratiche politiche dei
movimenti sociali dell'Asia meridionale alla luce
della globalizzazione che sta cambiando
il volto dell'India |
E'difficile non pensare a Marx, girando per le vie di Calcutta. A quella geniale pagina del Manifesto, ad esempio in cui si parla della tendenza della borghesia a crearsi «un mondo a propria immagine e somiglianza»: tutto, da Fort William al Writers Building, ti parla del bizzarro sogno di ricostruire un simulacro di Londra sulle rive dell'Hoogly, uno dei due rami in cui il Gange si divide entrando nel Bengala. Sennonché le facciate cadenti dei palazzi vittoriani finiscono per essere una metafora dell'incubo in cui quel sogno si è da subito trasformato. E mentre moltitudini sconfinate ti trascinano nel loro moto perpetuo e ti fanno sentire partecipe di un senso assoluto di precarietà dell'esistenza, ti domandi se per caso, rovesciando beffardamente un altro famoso passo marxiano, Calcutta non mostra a noi, almeno per qualche aspetto, l'immagine del nostro avvenire. Qui, del resto, non è solo l'Impero a dominare la scena. Sono cospicui i segni lasciati dalla lunga storia delle lotte anti-coloniali, ma anche dal formidabile movimento studentesco che negli anni Sessanta scosse la città, tracimando nelle campagne e dando vita alla stagione del socialismo naxalita, il maoismo indiano. E anche gli interlocutori più critici sul partito comunista che da quasi trent'anni governa il Bengala occidentale e la sua capitale ti dicono che in fondo le falci e martello che vedi copiose sui muri della città un qualche rapporto con quella storia ce l'hanno.
A Calcutta sono venuto per partecipare alla prima conferenza
di studi critici organizzata dal Calcutta Research Group (Crg, se ne può
visitare
il sito: http://www.mcrg.ac.in). Due giorni fitti di discussione
attorno al tema dell'autonomia, analizzato nell'insieme delle sue valenze,
territoriale, giuridica, sociale, politica, come chiave analitica per
comprendere che cosa è, e che cosa può diventare, la democrazia in India, e più
in generale nell'Asia meridionale.
Per fare un bilancio dell'iniziativa ho incontrato
Ranabir
Samaddar, che del Crg è
il direttore. Figura storica del movimento studentesco degli anni
Sessanta,
Samaddar conserva intatto lo smalto e
il radicalismo di quell'esperienza, ben visibili nella sua vasta
produzione intellettuale, di cui vale almeno la pena di segnalare un libro sulla
migrazione transfrontaliera dal Bangladesh verso
il Bengala Occidentale (The Marginal Nation, Sage, 1999) e una
splendida storia dell'India postcoloniale (A Biography of the Indian Nation,
1947-97, Sage, 2001), oltre alla recente raccolta dei suoi scritti dedicati
ai temi della guerra e della pace (The Politics of Dialogue Living Under the
Geopolitical Histories of War and Peace, Ashgate, 2004).
Come è nato
il Crg, quali sono i suoi obiettivi e i progetti di ricerca in cui è
impegnato.
Il gruppo è nato del 1996, come segreteria della terza conferenza dei
popoli indiano e pakistano per la pace e la democrazia, a cui parteciparono
oltre quattrocento delegati. Eravamo un gruppo di persone che si conoscevano da
tempo, che condividevano una certa impostazione politica di sinistra senza
identificarsi nelle posizioni del partito comunista al potere, e al tempo stesso
eravamo tutti impegnati in qualche tipo di attività accademica. E allora abbiamo
deciso di andare avanti, di vedere che cosa poteva venire fuori da questo
incrocio tra attivismo e ricerca. Dato che avevamo rapporti molto stretti con
il movimento sindacale e con
il movimento delle donne, quelli sono stati anche i primi temi su cui
abbiamo cominciato a lavorare.
E poi molti di noi erano impegnati nel movimento per la pace
in queste regioni del nordest e dell'est dell'India, territori di frontiera
teatro di guerre e violenza negli ultimi decenni ma completamente ignoti alle
scienze sociali e politiche: è stato naturale assumere anche
il confine come ambito di ricerca, e così siamo stati tra i primi ad
avviare in India quelli che oggi si definiscono border studies. E questo
ci ha condotto fin dall'inizio ad assumere, partendo da questioni politiche
molto concrete e non da un'astratta posizione intellettuale, una prospettiva
transnazionale, a collocare gli stessi problemi dell'India in un quadro più
ampio, asiatico-meridionale. D'altronde, la stessa conferenza di questi giorni
rifletteva questa prospettiva, sia in termini di partecipazione sia come
impostazione teorica.
La storia del gruppo non è stata semplice negli anni
successivi: abbiamo avuto grossi problemi dopo la vittoria elettorale del Bjp (il
partito nazionalista indù) nel 1998, io sono stato addirittura costretto a
lasciare Calcutta, ho lavorato in Nepal per diversi anni. Ma siamo riusciti ad
andare avanti, e oggi abbiamo un buon numero di progetti di ricerca e formazione:
sulle migrazioni coatte e i rifugiati (tema a cui abbiamo dedicato anche una
rivista, «Refugee Watch», unica nel suo genere nell'Asia meridionale), sulla «sostenibilità
dei diritti» in condizioni di globalizzazione (questione che analizziamo da un
duplice punto di vista, studiando le trasformazioni delle pratiche di governo
degli stati dell'area e
il rapporto che la pressione e la mobilitazione popolari
intrattengono con
il linguaggio dei diritti), sul concetto di autonomia e le pratiche
di cittadinanza (ovvero su un pensiero politico capace di porre al centro la
giustizia sociale, partendo dalle diverse tradizioni del «pensiero critico»
indiano), su media e democrazia.
Come nasce l'idea di una prima conferenza di studi
critici?
Da un po' di tempo ci stavamo rendendo conto che il nostro gruppo aveva ormai sviluppato non certo un programma, ne una posizione teorico-politica condivisa, ma quantomeno uno stile di lavoro, fondato in buona misura sul dialogo continuo, al nostro interno ma anche con altri gruppi di attivisti e di ricercatori. E' a questo stile di lavoro che abbiamo pensato fosse giunto il momento di dare maggiore visibilità, istituendo un «luogo» che lo potesse rappresentare e fare vivere. Una conferenza biennale, centrata sulla condivisione di un'idea di critica e di dialogo, ci è parsa la soluzione migliore. E la risposta è stata davvero incoraggiante, in India e al di fuori dell'India. Questo anzi, come dicevo prima, è un aspetto qualificante del progetto: ci interessa avviare una ridefinizione di quel che significa un pensiero critico oggi in India, ma lo facciamo dentro una dimensione che esorbita i confini dell'India, attingendo ai tanti rapporti che abbiamo in giro per il mondo e in un dialogo costante con altri singoli e collettivi che nell'Asia meridionale si pongono problemi simili a quelli che ci poniamo noi.
Veniamo al tema che avete scelto per questa prima
conferenza,
il concetto di autonomia. Mi pare che la discussione di questi giorni
abbia evidenziato un paradosso molto interessante:
il vostro lavoro è in buona misura centrato sul tema dei diritti, tu
stesso ti definisci un attivista per i diritti umani, ma al tempo stesso proprio
la riflessione sul tema dell'autonomia fa emergere continuamente i limiti del
linguaggio dei diritti. Come vivi questa situazione?
Beh, da una parte devo dire che non mi trovo male a muovermi
tra i due poli di questo campo di tensione, a usare
il linguaggio dei diritti e contemporaneamente a porne sempre in
evidenza i limiti. Ma dall'altra parte bisogna pur dire che non siamo un
classico gruppo di attivisti per i diritti umani. E questo non ha a che fare
soltanto con la nostra formazione, al peso che in essa hanno avuto
il marxismo e dunque linguaggi diversi da quello dei diritti,
il linguaggio della classe prima di tutto, che siamo ben lungi
dall'aver abbandonato; ha a che fare anche con la condizione specifica dei paesi
che hanno vissuto la dominazione coloniale.
Il primo «diritto umano», in un paese come l'India, è quello
all'autodeterminazione, a cui la nazione deve la sua origine. E questo fa sì che
il linguaggio dei diritti abbia sempre in qualche modo una doppia
natura: da una parte si riferisce all'ordinamento giuridico, dall'altra alla
giustizia sociale, a una rivendicazione di uguaglianza che non può mai essere
esaurita dall'ordinamento stesso. E' precisamente in questo iato che si colloca
il nostro lavoro, nel tentativo di cartografare le rivendicazioni, i
claims in cui si esprime la politica popolare oggi in India.
Lo stesso si può dire che accade con
il tema dell'autonomia, che è stato effettivamente al centro
dell'agenda politica degli ultimi anni in questa parte del mondo, dove ha
nutrito lotte e pratiche sociali straordinariamente interessanti, anche se
spesso terribilmente ambivalenti.
Come ogni rivendicazione di un diritto, anche quella del
diritto all'autonomia ha successo nella misura in cui
il governo se ne fa carico, garantisce quello specifico diritto. Ma
nel momento in cui
il governo fa questo,
il diritto viene sussunto nella macchina della governamentalità,
mentre c'è un resto, in quella che possiamo chiamare la «politica dei governati»,
che recalcitra a questa sussunzione. E' questo resto che cerchiamo, o almeno
cerco, di pensare attraverso
il tema dell'autonomia: è in fondo
il problema, a mio giudizio capitale, del soggetto politico, del
soggetto della politica popolare.
In questo senso, l'autonomia e la politica popolare sono
l'altro della governamentalità, sono due concetti (e al tempo stesso due
insiemi complessi ed eterogenei di pratiche) che ci consentono di guardare alla
politica da un punto di vista che non è quello del governo e dello stato.
L'autonomia, nella mia prospettiva, è ciò che rimane della politica popolare una
volta che
il governo ha fatto
il suo lavoro. E' per così dire un supplemento, irriducibile a ogni
teoria normativa, deliberativa o comunicativa della democrazia, e la storia
dell'India ci mostra a sufficienza che è un supplemento estremamente pericoloso:
ma una teoria politica critica non può che partire dal pensare questo
supplemento.
Possiamo dire di più: dal punto di vista della politica popolare l'autonomia è il nome della politica tout court, e ripeto che il grande problema della politica popolare non è nient'altro che il problema del soggetto politico.
Qual è
il «campo» della politica popolare oggi in India? Qual è la sua
composizione, quali sono i temi fondamentali di mobilitazione?
Devo essere sincero: se dovessi indicare la composizione
sociale della politica popolare nell'India di oggi, farei ricorso a classiche
categorie marxiane, che come ti dicevo ritengo essere ancora in buona misura
efficaci. Magari riesumerei la critica di Lenin al populismo, e parlerei del
ruolo delle ideologie. Ma c'è un problema ulteriore che mi sta molto a cuore:
sono convinto che ciò che chiamo la politica popolare, l'elemento popolare
della politica popolare, non sia esaurito dalla composizione sociale del «popolo».
C'è qualcosa di più: puoi chiamarla democrazia, azione collettiva, lotta. Sono
queste pratiche che determinano la politica popolare. Per dirla con una battuta:
è la barricata, nel momento in cui attrae migliaia di persone, ciò che
costituisce
il popolo!
Certo, quella che chiamo politica popolare, nel suo continuo
confronto-scontro con la governamentalità, non esaurisce
il campo della politica. Ci sono altre forme di politica, dal
terrorismo alle politiche imperiali: ma una teoria critica della politica non
può che partire da un studio meticoloso delle forme e delle pratiche della
politica popolare, che è qualcosa di diverso dagli stessi movimenti sociali che
al suo interno hanno agito e continuano ad agire. La politica popolare spiazza i
canoni e i concetti tradizionali, si sottrae alle alternative consuete: non è né
violenta né non violenta, è anzi estremamente pragmatica in materia, non è
completamente extra-parlamentare ma non si esaurisce mai nell'ambito puramente
istituzionale.
E' la presenza quotidiana e non eliminabile di questa
politica popolare in
India ciò che rende oggi così affascinante la
riflessione sulla democrazia nel subcontinente. Prendi
il movimento maoista, una realtà di massa, clandestina, in continua
crescita soprattutto nelle aree rurali, di cui non mi pare si sappia molto in
Occidente. Sono convinto che lo sviluppo del movimento maoista e l'atteggiamento
dello stato indiano siano variabili decisivi per
il futuro del paese. Ma quel che mi interessa ora è questo: se i
maoisti uccidono un civile, in un villaggio, la gente si indigna. Ma si indigna
molto di più se la polizia uccide un maoista! Che cosa è, come è materialmente
composto,
il sentimento democratico che fa sì che questa reazione sia così
forte e generalizzata? E' forse lo stesso sentimento che fa sì che ci sia una
straordinaria partecipazione elettorale, in India, nonostante
il diffuso scetticismo nei confronti delle istituzioni
rappresentative. E discorsi analoghi si potrebbero fare sul Nepal, o sullo Sri
Lanka.
Oppure prendi
il tentativo
del Bjp di cambiare la Costituzione: la
politica popolare non sembra interessarsi molto a questioni costituzionali. Ma
questo vale finché non vengono toccate quelle che nella coscienza della gente
sono ormai sentite come conquiste democratiche irreversibili. Quando avviene
questo, la risposta è immediata, e
il Bjp è stato sconfitto dalla mobilitazione popolare prima che dalle
urne. E' come se una serie di battaglie, di movimenti sociali, lo stesso
linguaggio della sinistra si fosse materialmente sedimentato nell'immaginario,
nelle forme e nelle pratiche della politica popolare. E i movimenti sociali che
si sono sviluppati negli ultimi anni al di fuori dell'alveo della sinistra
tradizionale (e spesso in esplicita rottura con essa), come quello dei dalit,
dei fuori-casta, o come quello che si è battuto contro le dighe nella valle
della Narmada, hanno ulteriormente qualificato e trasformato quel sedimento
materiale, hanno arricchito l'idea di dignità e giustizia sociale che vive al
centro della politica popolare nell'India di oggi. E' per questo motivo che
nonostante tutto guardo con ottimismo al futuro.